Attività vulcanica nei Campi Flegrei

Attività vulcanica nei Campi Flegrei

A cura di Federica Papa

 

I Campi Flegrei sono una vasta area di origine vulcanica situata a nord-ovest della città di Napoli; la parola “flegrei” deriva dal greco flègo che significa “brucio”, “ardo”.
Nella zona sono tuttora riconoscibili almeno 24 tra crateri ed edifici vulcanici, alcuni dei quali presentano manifestazioni gassose effusive (Solfatara) o idrotermali (Agnano, Pozzuoli, Lucrino), nonché sono causa del fenomeno del bradisismo (Pozzuoli).

Nei Campi Flegrei si riconoscono e distinguono tre periodi o fasi geologiche:
 I° Periodo Flegreo: risale a 42.000–35.000 anni fa; è caratterizzato da banchi in piperno e tufi grigi pipernoidi, riconoscibili nella collina dei Camaldoli, come nella dorsale settentrionale ed occidentale del monte di Cuma; altri prodotti ad esso riferibili sono quelli profondi di Monte di Procida, riconoscibili negli strapiombi della sua costa. Per questo periodo si parla anche del vulcano Archiflegreo la cui attività vulcanica esplosiva raggiunse l’apice con l’esplosione che disseminò in buona parte della regione Campania l’ignimbrite campana (39.000 anni fa).

 II° Periodo Flegreo: databile fra i 35.000–10.500 anni fa quando avvenne la maggiore eruzione della storia che si è caratterizzata per l’esteso deposito di tufo che ricopre l’intera piana campana per un’area di oltre 10.000 Km
quadrati. Circa 15.000 anni fa si verificò un altro evento catastrofico quando nei vulcani si formò un quantitativo di pomici e ceneri a causa della frammentazione di 40 chilometri di magma, il cui prodotto fu il tufo giallo che costituisce i resti di un immenso vulcano subacqueo (avente un diametro di ca. 15 Km e Pozzuoli al suo centro), il cui cratere residuo è formato dalla collina di Posillipo, dalla collina dei Camaldoli, dalla dorsale settentrionale
di Quarto, dai monti di Licola-S.Severino, dal dicco del monte di Cuma e da Monte di Procida. All’interno di questo cratere si erge ancora il massiccio tufaceo del Monte Gauro che si colloca tra Pozzuoli e l’Averno.

 III° Periodo Flegreo: datato dagli 8.000 ai 500 anni fa; è caratterizzato dalla pozzolana bianca che costituisce il materiale di cui è formata la maggior parte dei vulcani che formano i Campi Flegrei. Essi si sono collocati tutti all’interno del cratere primordiale del II° Periodo Flegreo.

A grandi linee si può riassumere:

1. attività iniziale a sud-ovest nella zona di Bacoli e di Baia (10.000–8.000 fa)
2. attività intermedia – tra Pozzuoli, Montagna Spaccata e Agnano (8.000–3.900 anni fa);
3. un’attività più recente spostatasi nuovamente verso occidente a formare l’Averno e il
Monte Nuovo (3.800–500 anni fa).

Dal 1970 al 1972: il bradisismo ha provocato un primo episodio di sollevamento
del suolo di circa 170 centimetri nel porto di Pozzuoli.

Dal 1982 al 1984 si è verificata una seconda risalita del suolo che portò il
sollevamento delle banchine all’altezza di circa 3 metri; In questo
periodo sono stati rilevati circa 10.000 terremoti.

Dal 1984 è iniziata una fase discendente.

L’ATTIVITà VULCANICA NEI CAMPI FLEGREI

L’inizio dell’attività vulcanica nei Campi Flegrei non è certo.
I prodotti più antichi sono datati fra 47.000 e 37.000 anni fa e consistono nei duomi di lava di Cuma e Punta della Marmolite. Le perforazioni effettuate per lo scavo di pozzi geotermici hanno evidenziato in profondità la presenza di altri prodotti derivanti da una precedente attività sub-aerea e sottomarina.
La morfologia dell’area e lo sviluppo della sua attività eruttiva sono state condizionate da due grandi eruzioni avvenute intorno a 34000 e 12000 anni fa. Queste eruzioni hanno lasciato vasti depositi chiamati, rispettivamente:

 IGNIMBRITE CAMPANA
 TUFO GIALLO NAPOLETANO

La figura mostra una carta geologica schematica dei Campi Flegrei. Alla collina dei Camaldoli è possibile vedere gran parte dei prodotti dell’attività eruttiva avvenuta nei Campi Flegrei.

L’IGNIMBRITE CAMPANA

L’ignimbrite campana è formata dal deposito di uno o più flussi piroclastici di cenere, pomici e scorie che hanno ricoperto un’area di 7.000 km2. Il volume di magma emesso è stato stimato dell’ordine di 80 km3.
Le datazioni attualmente disponibili, effettuate sia su paleosuoli sottostanti di deposito sia su legni carbonizzati inglobati in esso, danno età discordanti che hanno contribuito a far nascere differenti pareri sulla possibilità che i prodotti siano stati emessi durante una o più eruzioni.
L’ignimbrite campana affiora lungo i bordi di tutta la piana campana, con spessori variabili da 20 a 60 metri e si trova fino in Appennino a quote di 1.000 m. Manca nella parte centrale della piana, sia per erosione, sia perché ricoperta dai prodotti dell’attività successiva di Campi Flegrei e Vesuvio e da terreni alluvionali.
Rosi (1983) e Sbrana (1987) comprendono nell’Ignimbrite Campana anche i depositi chiamati Piperno e alcune brecce dette Breccia Museo, presenti nei Campi Flegrei. Il flusso piroclastico avrebbe abbandonato questo materiale
grossolano e pesante nelle zone vicino al punto di emissione. Lirer (1991) e Perrotta (1993) riconoscono in queste brecce il deposito di eruzioni posteriori.

I prodotti dell’Ignimbrite Campana consistono prevalentemente in pomici e scorie nere, più o meno schiacciate e deformate (chiamate fiamme, termine che indica i piroclasti vescicolati la cui porosità è ridotta per schiacciamento), inglobate in una matrice di cenere e subordinate quantità di litici e cristalli.

Di Girolamo (1968) e Barberi (1978) ritengono che si tratti del deposito di una sola eruzione, anche se i prodotti presentano differenze marcate da una zona all’altra, come la variazione da depositi di colore grigio poco saldati a depositi gialli più saldati. Un più alto grado di saldatura è collegato a processi di mineralizzazione secondari, frequenti nei depositi ignimbritici, detti zeolitizzazione.

Di Girolamo (1968) riconosce nel deposito anche graduali variazioni in senso verticale: la parte inferiore è costituita da una matrice cineritica saldata inglobante scorie scure schiacciate e isorientate, mentre nella parte superiore le
scorie tendono ad essere meno deformate e disperse senza orientazione preferenziale nella matrice.

Nei settori orientali della Piana Campana e dell’Appennino si trova, alla base dell’Ignimbrite Campana, uno strato di pomici da caduta. Questo significa che, prima della formazione del flusso piroclastico, l’eruzione ha avuto una fase pliniana.

L’ignimbrite campana è studiata dai vulcanologi da oltre due secoli e il numero di opinioni sulla sua genesi sembra proporzionato alle dimensioni dell’eruzione.
Alcuni autori (Di Girolamo, Barberi) ipotizzano che la zona di emissione del flusso sia una frattura arcuata presente lungo la parte Nord dei Campi Flegrei e del Golfo di Napoli e ritengono che l’eruzione abbia provocato lo sprofondamento di un’ampia area che comprende i Campi Flegrei e parte del Golfo di Napoli.

Secondo altri (Rosi e Sbrana, 1987), la frattura avrebbe una geometria anulare intorno ai soli Campi Flegrei e, dopo questa l’eruzione, si sarebbe formata la caldera flegrea.
Secondo Lirer (1987) e Scandone (1991),lo sprofondamento calderico sarebbe avvenuto in seguito, dopo l’eruzione del Tufo Giallo Napoletano e collocano i centri eruttivi dell’Ignimbrite Campana lungo una frattura con direzione NESO passante per Napoli e delimitante, a Nord, la piana di Acerra (Scandone et al., 1991).

L’attività dopo l’eruzione dell’ignimbrite campana.
Dopo l’eruzione dell’ignimbrite campana, l’attività vulcanica si localizza al Vesuvio e tra la zona occupata dall’attuale città di Napoli e l’isola di Procida.

Procida e Monte di Procida.
L’attività vulcanica avvenuta sull’isola di Procida è strettamente legata a quella verificatasi nella parte occidentale dei Campi Flegrei (Monte di Procida), da cui dista soli due km. In questo settore, le eruzioni avvennero fra 40.000 e 14.000 anni fa, epoche che corrispondono rispettivamente all’età dei prodotti di Vivara e Torregaveta. Le eruzioni furono per lo più esplosive, anche se di moderata energia dal momento che i prodotti non si ritrovano a distanze maggiori di qualche km.

Vivara.
E’ il vulcano più antico che si eleva sul mare come un cono isolato. Anche i duomi di lava di Punta Ottimo e S. Martino-Acquamorta si formano nel periodo più antico, insieme al cono di scorie di Miliscola-Monte Grillo, ora parzialmente distrutto.
Sopra questi prodotti, si trovano numerosi strati di pomici depositati da eruzioni localizzate su Ischia. Intorno a 31.000 anni fa avviene l’eruzione di Fiumicello, il cui centro di emissione è probabilmente a Procida, dove si ritrovano anche i depositi con il massimo spessore. I prodotti consistono in strati di ceneri grige e lapilli neri e si
vedono anche a Monte di Procida.
Le più recenti eruzioni sono state quelle:
 Breccia Museo (circa 18.000 anni; Perrotta e Scarpati, 1993)
 Solchiaro (17.000).

Il deposito della Breccia Museo si vede principalmente lungo la falesia di Acquamorta e a Procida, ed è composto da clasti di natura e dimensioni molto eterogenee, sia vulcanici che sedimentari. Sulla terra ferma, l’ultima eruzione prima del Tufo Giallo Napoletano è quella di Torre Gaveta (14.000 anni).

IL TUFO GIALLO NAPOLETANO

Il Tufo Giallo Napoletano consiste in un vasto deposito da flusso piroclastico che ha modellato la morfologia della zona occidentale di Napoli (la collina di Posillipo, ad esempio, è formata da Tufo Giallo Napoletano).
L’eruzione del Tufo Giallo Napoletano è datata intorno a 12000 anni fa e i suoi prodotti sono ampiamente distribuiti lungo il bordo della caldera e al suo interno, come rilevato dallo scavo di pozzi e perforazioni per scopi geo-termici. Una stima del volume di magma emesso durante questa eruzione è compresa fra 10 e 20 km3.

Alfred Rittmann (1950) riteneva che tutti i depositi di Tufo Giallo affioranti nei Campi Flegrei e nella città di Napoli fossero il risultato di differenti eruzioni. Più recentemente, Rosi (1983) e Sbrana (1987) concordano con Rittmann, mentre altri autori (Lirer e Munno (1976) e Di Girolamo (1984) ritengono che almeno i depositi di Tufo Giallo che si trovano vicini al bordo dei Campi Flegrei, all’interno e all’esterno della depressione, siano stati emessi da un’unica eruzione, cui sarebbe anche legato il collasso dell’area (Lirer 1987).

Uno degli ultimi lavori (Scarpati e Cole, 1993), basato su dettagliati studi stratigrafici, granulometrici e geochimici, confermerebbe l’ipotesi di una sola eruzione. Questi autori ricostruiscono l’evoluzione dell’eruzione attraverso la sequenza dei prodotti: i depositi basali, formati da strati alternati di pomici e ceneri, deriverebbero da una fase eruttiva iniziale freato-pliniana, seguita da una violenta fase di surge e flussi piroclastici.

L’attività dopo l’eruzione del Tufo Giallo Napoletano.
Scandone (1991) ritiene che dopo l’eruzione del Tufo Giallo Napoletano, la parte più bassa dei Campi Flegrei sia stata invasa dal mare. L’eruzione pone fine a ogni attività all’esterno della caldera (Procida, Monte di Procida, Napoli) e le eruzioni successive sono confinate all’interno e, frequentemente, lungo i margini della depressione
calderica. Il lato a mare degli edifici vulcanici formatisi durante questo periodo sarebbe stato eroso (Lirer 1987).

Le eruzioni avvenute fra 11.000 e 9.000 anni fa all’interno della caldera formano una serie di apparati monogenici, cioé formati da una sola eruzione. In quest’arco di tempo si collocano le eruzioni del Gauro (10.000), dell’Archiaverno, delle Pomici di Agnano (9.000), di Monteruscello e probabilmente, sul margine settentrionale, si sono formati i vulcani di Montagna Spaccata e Pisani e Nisida a Est.
Molti di questi vulcani sono costituiti da tufo giallo litificato, interpretato come il prodotto di eruzioni avvenute per interazione fra acqua e magma (Di Girolamo et al, 1984). Altre eruzioni si sono verificate lungo il bordo verso Ovest: Baia, Fondi di Baia, Miseno e Porto Miseno.

Fra 10.000 e 5.000 anni fa il suolo della caldera si è sollevato. La traccia di questo evento è costituita da un terrazzo marino, la Starza, alto circa 40 metri sopra il mare, il quale attualmente borda la costa settentrionale del Golfo di Pozzuoli. Il sollevamento è stato accompagnato e seguito da una rinnovata attività vulcanica i cui centri sono leggermente spostati verso il centro della caldera. Durante questa fase si è formata la caldera di Agnano, in seguito alle eruzioni di Agnano-Monte Spina (4.000 anni fa) ed Astroni (3.700 anni fa).
Nello stesso periodo nella parte occidentale dei Campi Flegrei è avvenuta l’eruzione di Averno (3.700), Solfatara e Monte Olibano. L’ultima eruzione dell’area, Monte Nuovo, è avvenuta in tempi relativamente recenti, nel 1538.

L’ULTIMA ERUZIONE: IL MONTE NUOVO (1538)
All’inizio del 1500, la costa di Pozzuoli si era sollevata in maniera tale che il vicere spagnolo, con un editto del 6 ottobre 1503, concedeva alla città di Pozzuoli la proprietà legale delle terre che si andavano formando per l’arretramento del mare. Questo sollevamento del suolo è, secondo molti vulcanologi, il fenomeno precursore
dell’eruzione che sarebbe avvenuta circa 30 anni dopo. Dal 1536 in Pozzuoli e nei paesi vicini si avvertivano frequenti e forti scosse di terremoto che continuarono fino al 27 settembre del 1538. Il 29 settembre comincia l’eruzione.

 

Secondo la testimonianza lasciata da Marco Antonio Delli Falconi nel 1539, le prime bocche si aprirono tra un luogo detto il sudatoio e Trepergole e, insieme alle prime fiamme, si notò la formazione di nuove sorgenti di acqua, sia dolce che salmastra. Nella notte cenere e pomici, mischiate con acqua, coprirono tutto il paese e la cenere
cadde fino a Napoli. La mattina seguente, la gente di Pozzuoli abbandona le case sotto una pioggia di cenere che dura tutto il giorno. Intanto, il mare si è ritirato lasciando in secca le barche e un gran numero di pesci morti lungo la spiaggia. L’eruzione prosegue per due giorni e due notti con continui lanci di materiale dal cratere e sbuffi di pomici e ceneri.
Il terzo giorno l’eruzione sembra fermarsi, ma il quarto riprende con emissione di nubi cineritiche. I due giorni seguenti, dalla bocca eruttiva esce poco fumo e alcuni si spingono fino al cratere.

Il luogo è completamente cambiato: dove prima vi era una vallata, si è formato un monte (Monte Nuovo) che ha ricoperto il castello di Trepergole e tutti gli edifici fino al lago di Averno. Alla sommità del monte vi è il cratere con una circonferenza di un quarto di miglio, da cui esala un fumo continuo. Il sei ottobre, quando tutto sembra
finito, i curiosi che si trovano sulla cima del nuovo rilievo vengono sorpresi da uno lancio improvviso di materiale incandescente e oltre venti persone non sono state più ritrovate.

L’eruzione è preceduta dall’apertura di fratture e dalla formazione di nuove sorgenti di acqua. Questa emissione di acque è probabilmente dovuta all’aumento di pressione provocato dal magma su di uno strato acquifero sotterraneo mentre l’arretramento del mare, nella zona immediatamente circostante il Lago di Averno e la costa di Lucrino, è causato dal rigonfiamento del suolo per la spinta del magma verso la superficie.

L’attività eruttiva vera e propria inizia con la fuoriuscita di cenere frammista ad acqua, cui segue la formazione di una colonna di cenere e vapore che deposita prodotti fangosi mescolati a pomici e scorie. I depositi di questa fase presentano caratteristiche simili a quelle delle valanghe di fango.
Il progressivo diminuire dell’acqua nelle falde crea le condizioni per una fase più propriamente magmatica, durante la quale vengono emesse una gran quantità di scorie e forse anche un flusso piroclastico, i cui prodotti sarebbero finiti in gran parte in mare.

L’ultima fase dell’eruzione, avvenuta il 6 ottobre, causa la maggior parte delle vittime. Si tratta di un tipo di attività definita stromboliana, in quanto tipica di Stromboli, consistente in una serie di esplosioni di moderata violenza durante le quali vengono emesse scorie che si accumulano nei pressi della bocca eruttiva.
Le conseguenze dell’eruzione non furono gravissime, se non in una zona limitata, e già nel 1539 il vicerè Don Pedro di Toledo inaugura una splendida villa a Pozzuoli e vi si installa “per placare le ansie della popolazione”. I danni sarebbero di tutt’altra entità con l’attuale situazione edilizia.

IL BRADISISMO

Il bradisismo ha modificato radicalmente l’antica linea di costa da Baia a Pozzuoli con l’attuale immersione del Porto di Baia ed il Porto Giulio (Portus Julius) nonché l’abbassamento, in epoca medievale, di circa 6 metri del Tempio di
Serapide a Pozzuoli (Macellum).

Sin dal 1800, i segni del livello del mare lasciati sulle rovine di un mercato romano (Serapeo) a Pozzuoli, indicavano un progressivo abbassamento dell’area. Questi lenti movimenti del suolo sono stati chiamati “bradisismo”, dal greco bradi (lento) e sismo (movimento).

Livellazioni eseguite all’inizio del secolo mostrarono che la massima subsidenza avveniva nella città di Pozzuoli e decresceva regolarmente lungo la costa verso Est e verso Ovest. Il movimento del suolo verso il basso è continuato sino al 1968 per poi invertirsi. Due importanti episodi di innalzamento che interessarono l’area di Pozzuoli nei periodi 1970-72 e 1982-84 hanno prodotto un sollevamento (calcolato rispetto alla precedente livellazione) rispettivamente di 170 cm e di 182 cm nel punto di massima deformazione. La forma geometrica del sollevamento risultò speculare rispetto a quella dell’abbassamento osservato fino al 1968, con analoga simmetria circolare, con massimo centrato su Pozzuoli, e una regolare diminuzione della deformazione verso i margini della caldera.

L’innalzamento del 1970-72 si è successivamente ridotto di circa 20 cm e, analogamente, circa 70 cm di deflazione (ancora in corso) sono avvenuti dopo il 1984.
Il movimento verso il basso osservato fino al 1968 può essere connesso con la compattazione dei prodotti piroclastici che riempiono il fondo della depressione calderica e, in questo senso, rappresentano una normale dinamica dell’area.
Al contrario, gli improvvisi episodi di innalzamento devono essere considerati come eventi anomali legati alla presenza di magma e ai suoi spostamenti sotto la caldera.
Nella primavera del 1983, pochi mesi dopo l’inizio della fase di sollevamento, cominciò una crisi sismica. I terremoti avvenivano prevalentemente nella regione costiera attorno a Pozzuoli. Solo alcuni più profondi si ebbero nell’area del Golfo e nessun evento venne localizzato al di fuori dei Campi Flegrei.

Gli ipocentri erano ubicati ad una profondità variabile da qualche centinaio di metri fino a cinque km. La massima magnitudo registrata è stata 4 (scala Richter) e gli eventi a più alta energia furono quelli verificatisi in corrispondenza delle faglie che bordano la caldera.

Testo e immagini gentilmente concessi dall’architetto Mauro Di Vasta.