Il tufo giallo napoletano e le cave di Quarto

Il tufo giallo napoletano e le cave di Quarto

A cura di Barbara Caramanna

I Campi Flegrei rappresentano un campo vulcanico complesso formatosi attraverso due principali episodi eruttivi con sprofondamento vulcanico, il primo circa 39.000 anni fa con deposito pirolastico dell’Ignimbrite Campana e il secondo circa 15.000 anni con l’eruzione del Tufo Giallo Napoletano (T.G.N.), prodotto da un vasto deposito di flusso piroclastico, il cui volume è valutato in circa 15 km3 che ha modellato la morfologia della zona occidentale di Napoli, per un’estensione di 350 km2.

Il T.G.N. è classificabile come “roccia tenera”, con un comportamento che, a seconda dello stato di sollecitazioni a cui è sottoposto, può essere considerato intermedio tra le rocce ed i terreni, è leggero e ad elevata porosità. Normalmente è possibile scalfirlo con un’unghia, ma la resistenza allo schiacciamento è sufficientemente alto per poterne permettere l’utilizzo, purché abbia una resistenza di almeno 30 kg/cm2 in quanto le varietà più scadenti possono dare luogo, nel tempo, a fenomeni di schiacciamento con conseguente rottura dei conci e quindi compromissione dell’opera realizzata.

Foto di una marmetta (5x5x10 cm) di Tufo Giallo Napoletano

Il T.G.N. varia quindi in base alle caratteristiche da sito a sito e nell’ambito dello stesso giacimento con variazioni sia verticali che laterali.

Esistono quindi numerose qualità, o varietà, che erano ben conosciute dagli antichi che le denominavano mappamonte, tufo arenoso, cima di monte, tufo selvaiolo, pietra tosta, tufo ferrigno, tufo fine, tufo molle, tufo biancolillo, tufo turrunello, tufo pomicioso, tufo fradicio.

L’ampia disponibilità di questo materiale, di facile estrazione e lavorabilità e le ottime proprietà di coibentazione termica ed acustica hanno favorito la sua utilizzazione sul territorio fin dai primi insediamenti Rodiesi nell’800 a.C per poi essere usato in gran parte delle costruzioni, sia con funzione strutturale che architettonica (circa il 20% delle superfici murarie a “faccia vista” del Centro Antico di Napoli sono realizzate in tufo, la quasi totalità di quelle intonacate e un vasto utilizzo del materiale lo ritroviamo anche a Castel dell’Ovo, Castel Sant’Elmo, e numerose chiese, tra le quali la Basilica di Santa Chiara e San Domenico Maggiore).

A Quarto, invece, il periodo culmine delle attività caveali per l’estrazione del T.G.N., avvenne tra gli anni ’50 e ’70 del novecento, interessando particolarmente la cinta collinare occidentale sita tra le contrade Campana, Spinelli, Monticelli, Cesapepere.

Il materiale era costituito principalmente da matrice cineritica compatta formata da elementi a grana fine, contenenti lapilli lapidei e lapilli pomicei a volte con cavità ampie alcuni millimetri. 



La coltivazione però non avveniva in
sotterraneo come a Napoli ma a cielo aperto, scavando e asportando dall’alto in basso i materiali piroclastici sciolti di copertura, fino al raggiungimento del banco tufaceo che veniva anch’esso attaccato dall’alto in basso, tagliando i conci di tufo direttamente nell’ ammasso vulcanico. Con questa tecnica, si vennero così a formare delle particolari tipologie di cave, dette “a fossa”, che si possono parzialmente osservare ancora oggi, nonostante siano state chiuse da decenni.

L’attività di cava a Quarto, praticata in decine di cave di varie dimensioni insistenti su suoli appartenenti a privati, la maggior parte quartesi, produsse in quegli anni un indotto industriale di un certo rilievo, movimentando sia esercenti e mano d’opera locale, che imprese e personale afferenti ad altri territori comunali del circondario flegreo.